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Immagine presentazione dati indagine

Indagine Smart Working 2020: alcune considerazioni preliminari sui risultati

La confederazione CIFA, il sindacato Confsal e il Fondo Interprofessionale FonARCom hanno affidato al Centro Studi InContra la realizzazione di un’indagine per esplorare gli impatti che l’emergenza Covid-19 ha avuto sull’organizzazione del lavoro, con l’intento di dare voce, in particolare, ai lavoratori e alle difficoltà che si sono trovati ad affrontare sul piano professionale e personale.

L’indagine sullo smart working 2020: capire il presente per progettare il futuro è stata svolta attraverso un questionario on-line, costruito ad hoc, e ha avuto come macro-obiettivo quello di rilevare il grado di diffusione del lavoro agile e la percezione dei lavoratori rispetto a questo “nuovo” modello organizzativo. In particolare, si è perseguito l’obiettivo di individuare le risorse utilizzate e le barriere incontrate dai lavoratori nell’adozione di questa modalità di svolgimento di lavoro, che ha rappresentato – per la maggior parte delle realtà aziendali – una novità assoluta. L’intento è stato dunque duplice:

a)         verificare se i vantaggi rilevati ed associati dalla letteratura scientifica allo smart working trovino un reale riscontro nella specifica realtà nazionale;

b)         constatare se – e quali – criticità sono emerse sul piano operativo e personale nell’applicazione dello smart working nel contesto italiano.

La popolazione dei rispondenti è in maggioranza femminile e nella fascia di età 36 - 45 anni, di cui l’80% è sposata e, per circa il 55%, senza alcun familiare a carico.

Il parametro relativo ai familiari a carico è stato indagato in quanto il comma 3-bis dell’art. 18 della Legge 81/2017 riconosce un diritto di priorità all’accesso allo smart working ad alcune categorie di lavoratori, andando a favorire la genitorialità e l’espletamento dei doveri parentali. Nonostante questo, dall’indagine non si è riscontrata una correlazione diretta tra il numero di familiari a carico e l’aver lavorato, precedentemente all’emergenza da Covid-19, in smart working. Questo dato sembra suggerire che il parametro previsto dal comma 3-bis di cui sopra non sia finora stato pienamente applicato nella scelta di avviare progetti di lavoro agile o non sia stato considerato un motivo sufficientemente valido per farlo.

Un altro dei parametri che, in letteratura, è frequentemente riconosciuto per l’attivazione dello smart working è la distanza tra l’abitazione e la sede di lavoro, che è stato confermato dai dati raccolti, in quanto si registra una crescita proporzionale tra percentuale di lavoratori che lavorava in smart working già prima dell’emergenza da Covid-19 e distanza espressa in chilometri tra abitazione e luogo di lavoro.

Guardando ai vantaggi che i rispondenti hanno riscontrato nella loro esperienza o che comunque ritengono di poter associare allo smart working, si è registrato un generale riconoscimento degli stessi. Sono state alte le percentuali di accordo rispetto al fatto che lo smart working:

  • aiuti a bilanciare meglio vita privata e vita lavorativa;
  • favorisca una maggiore produttività;
  • permetta di acquisire maggiore responsabilità sul raggiungimento di obiettivi e risultati.

In tutti i casi, però, confrontando le risposte di chi occupa un ruolo da collaboratore con quelle di chi ha un ruolo da responsabile, il grado di accordo è inferiore da parte di quest’ultimi. Lo stesso vale anche per le affermazioni secondo le quali il lavoro agile permetterebbe di avere maggiore tempo libero e una percezione di maggior fiducia da parte del capo.

Negli item relativi ai vantaggi, si sono rilevate anche percentuali di disaccordo non trascurabili in alcuni importanti fattori, quali:

  • la possibilità di avere un coordinamento più efficace con il capo e con il team;
  • la possibilità di condividere più facilmente informazioni;
  • la possibilità di ridurre i tempi di risposta a richieste urgenti;
  • la possibilità di evitare relazioni sgradite.

Sembrano emergere, dunque, rilevanti problematiche gestionali nel coordinamento e nell’uso efficace degli strumenti tecnologici, quali, ad esempio, le piattaforme di condivisione e collaborazione.

Nella sezione degli svantaggi viene confermata l’idea secondo cui lo smart working non avrebbe alcuna incidenza negativa sul livello di produttività dei lavoratori, ma si registra anche un dato che appare in contrasto con quelli rilevati nella sezione dei vantaggi, in quanto, nonostante la maggioranza dei rispondenti abbia affermato che lo smart working favorisca il work-life balance, si registra accordo anche rispetto al fatto che creerebbe difficoltà nel separare tempi di vita e tempi di lavoro. Questo dato non può essere letto separatamente dal peculiare momento in cui la maggior parte dei rispondenti ha sperimentato lo smart working, ossia nella fase di lockdown, in cui la vita personale e sociale è stata intaccata anche da altri fattori, oltre quelli lavorativi, che possono presumibilmente aver influito sulla percezione dei rispondenti. Lo stesso si può sostenere anche per quanto riguarda il “senso di isolamento” e le “distrazioni esterne”: in molti hanno affermato di averne lavorando da remoto, ma anche in questo caso bisogna considerare le difficoltà dovute alla quarantena (ad es. la presenza dei figli a casa). Uno degli svantaggi maggiormente rilevati tra i rispondenti è, però, la difficoltà nel sentirsi sempre connesso e reperibile, che può collegarsi alla difficoltà, già precedentemente citata, nel separare vita e lavoro. Questo dato viene ulteriormente confermato dal fatto che, sia i responsabili sia i collaboratori manifestano una difficoltà e/o incapacità nel riuscire ad utilizzare gli strumenti digitali bilanciando correttamente le pause. La problematica sembra, dunque, essere molto rilevante ed introduce la necessità di trovare un’adeguata risposta ad essa, dando forma ed applicazione al diritto alla disconnessione. Nonostante questo diritto sia riconosciuto a livello normativo, non ha, ad oggi, una chiara definizione a livello applicativo. Infatti, la predisposizione delle misure per rendere effettivo tale diritto è lasciata alla discrezionalità delle parti che stipulano gli accordi di smart working. Tale discrezionalità può incappare in delle problematiche in quanto non è semplice riuscire a programmare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, quando sia il lavoro che le relazioni sociali in esso coinvolte si svolgono in ambienti digitali. È, però, indispensabile farlo, per il benessere psico-fisico dei lavoratori, ed è un punto sul quale la contrattazione collettiva (specialmente quella di secondo livello) potrebbe e dovrebbe intervenire. Alcuni semplici interventi che possono essere attuati e regolamentati affinché tale diritto possa essere esercitato sono: il ricorso a server aziendali, la separazione degli indirizzi email e dei numeri di telefono professionali da quelli personali, nonché la predisposizione di specifiche fasce di reperibilità nelle quali il lavoratore può essere contattato. Questo porterebbe a dover favorire la dotazione della strumentazione tecnologica da parte del datore di lavoro, escludendo il ricorso a strumenti tecnologici di proprietà del lavoratore.

Per un corretto utilizzo della strumentazione tecnologica è altrettanto necessario promuovere nuovi approcci per orientare correttamente l’innovazione e l’uso delle tecnologie coinvolte nel lavoro agile. Infatti, nonostante dall’indagine emerga una generale convinzione nel riuscire ad utilizzare tutti gli strumenti digitali di cui si dispone in maniera efficace nel lavoro da remoto, si evidenzia altresì la necessità di sviluppare competenze di tipo trasversale, che permettano di gestire efficacemente la programmazione del proprio lavoro. Questo si tradurrebbe nella capacità di porsi micro-obiettivi significativi ma raggiungibili in termini di risorse disponibili e tempi, riconoscendo le priorità ed i bisogni sia lavorativi che personali. I nuovi approcci devono, dunque, intervenire attraverso la promozione della formazione continua – basata sulle reali esigenze produttive aziendali e su quelle del lavoratore – e di una nuova cultura aziendale, che sia in grado di accogliere i processi di trasformazione digitale.

Questo si evince palesemente anche dalle motivazioni espresse dai rispondenti all’indagine rispetto a:

  • se, e per quale motivo, volessero essere valutati in base al raggiungimento degli obiettivi di lavoro;
  • se, e per quale motivo, preferissero una retribuzione collegata al raggiungimento degli obiettivi di lavoro.

Nel primo caso, la stragrande maggioranza di lavoratori sembrerebbe favorevole alla possibilità di essere valutati in merito alla capacità di raggiungere i propri obiettivi lavorativi, andando a confermare quanto precedentemente rilevato rispetto all’idea secondo cui lo smart working favorirebbe la produttività e l’acquisizione di maggiore responsabilità sul raggiungimento di obiettivi e risultati. Il principale motivo espresso dai rispondenti favorevoli riguarda fattori meritocratici, mentre la flessibilità risulta essere prioritaria per la minoranza di essi. Tra coloro che si sono detti, invece, contrari, gran parte ha la convinzione che alle proprie mansioni non sia concretamente possibile collegare degli obiettivi di lavoro. Similmente, molti ritengono il raggiungimento degli obiettivi un parametro non esaustivo per la valutazione del proprio operato, spesso avanzando come giustificazione il fatto che il mancato raggiungimento di questi ultimi sia indipendente dalla qualità del lavoro svolto e, invece, correlato a cause esogene (come l’intervento di individui terzi). Dunque, si rileva come la resistenza culturale del contesto resti un fattore di forte freno per tale cambiamento

Per quanto riguarda il secondo punto – l’introduzione di una retribuzione collegata al raggiungimento degli obiettivi di lavoro – diminuisce il numero dei favorevoli, che si dichiarano tali sempre perché lo ritengono un meccanismo maggiormente meritocratico e più stimolante per il proprio lavoro. Tra i contrari vi è, principalmente, una diffusa mancanza di fiducia nei confronti dei possibili valutatori (mancanza di oggettività, mancanza di conoscenza reale dei compiti dei propri collaboratori, fenomeni di discriminazione, ecc.) e l’idea secondo la quale il raggiungimento degli obiettivi non sia né un parametro esaustivo e né esule da fattori esterni ed imprevedibile che comprometterebbero il raggiungimento degli stessi.

Si evidenzia, ancora, come il ricorso massivo allo smart working, avvenuto in questa fase emergenziale, non abbia trovato un terreno fertile, ossia un piano strutturato, in grado di far fiorire pienamente le sue potenzialità. Sia l’impostazione organizzativa e sia quella normativa risultano obsolete e questo impatta sulla percezione dei lavoratori che, a loro volta, hanno delle barriere culturali nell’accettare i profondi cambiamenti che i principi del lavoro agile comporterebbero. Lo smart working richiede infatti di accrescere, non solo le competenze digitali dei lavoratori, ma anche le loro attitudini ed i loro comportamenti. In tal senso non si può guardare solo alla tecnologia, ma si deve guardare prima di tutto alle persone.

Nella letteratura scientifica si evidenzia spesso la relazione tra tecnologie dell’informazione e organizzazione aziendale e la presenza di una stretta complementarietà tra cambiamenti tecnologici e cambiamenti organizzativi. Sono molti i lavori empirici che evidenziano come le migliori performance in termini di produttività si realizzino solo in presenza di mutamenti tecnologici, ma si evidenzia altrettanto come questo avvenga solo se tali mutamenti vengono accompagnati anche da cambiamenti organizzativi. Le nuove tecnologie sono giustamente considerate uno dei pilastri principali su cui si fonda lo smart working, ma non sono sufficienti.

Venendo meno la timbratura del cartellino – che molti definiscono un vero e proprio “rituale” – diviene più complicato tracciare un confine netto tra vita e lavoro, con evidenti conseguenze dal punto di vista organizzativo e personale. Ma, mentre il lavoro sconfina nella vita privata, viene sempre rigidamente misurato su una base oraria ed ancorata all’idea del luogo fisico dell’ufficio. Bisogna, dunque, ripartire da nuovi modelli organizzativi e da rinnovati schemi giuridici, che svincolino gli smart worker dal rapporto di lavoro subordinato, facilitando la necessaria transizione culturale verso effettive forme di autonomia e flessibilità temporali e spaziali.

 

A breve verrà reso disponibile il report completo dell'indagine, accedendo o registrandosi alla nostra AREA RISERVATA

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