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La formazione del lavoratore in caso di mutamento di mansioni

 

michele giammusso 3

Il comma terzo dell’art. 2103 c.c., nella sua nuova formulazione ad opera del Job Act stabilisce che “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo (…)”.

La norma in esame disciplina le modalità e i limiti in cui il datore di lavoro può adibire i lavoratori a mansioni differenti da quelle assegnate all’atto dell’assunzione, nella ricerca di un equilibrio tra le esigenze di flessibilità e cambiamento che caratterizzano l’attività di impresa e la tutela dei diritti dei lavoratori.

Fino alla riscrittura della norma - avvenuta nel 2015 - il tema della formazione era stato assente dalla disciplina del mutamento di mansioni e la giurisprudenza prevalente, salvo qualche rara apertura (1), non ha riconosciuto un diritto alla formazione in capo al lavoratore dipendente.

Oggi invece il legislatore sembra avere predisposto un «obbligo formativo» che cambia il quadro giuridico in esame. A prescindere da una esatta qualificazione in termini giuridici (sussiste una sanzione in caso di inadempimento dell’obbligo formativo? in capo a chi chi grava quest’“obbligo”? i quali casi il suo assolvimento è, a dir della normativa, “necessario”?) appare evidente che la norma in esame ha introdotto una previsione che ben si sposa con una visione dinamica e non invece statica della professionalità del lavoratore: è quanto mai prioritaria l'esigenza – dell’azienda - di sviluppare percorsi formativi per i lavoratori quanto per il dipendente stesso l’acquisizione di sempre nuove conoscenze e competenze professionali spendibili all’interno dell'organizzazione produttiva, sempre più fluida e in costante mutamento.

Si tratta dunque di un'importante rete di protezione per la professionalità del lavoratore il quale, potendo essere adibito a mansioni che richiedono un livello di competenze differenti da quelle in suo possesso, si vede attribuito dal legislatore quel “completamento formativo” che, al di là di una sua obbligatorietà in senso giuridico quanto piuttosto di una sua “opportunità” in termini di una migliore e più efficiente organizzazione del personale e della produttività aziendale, si rende necessario per l’ottenimento di nuove competenze finalizzate al proficuo svolgimento della prestazione lavorativa.

Un’ultima considerazione: ad integrazione ed esecuzione del dato normativo, è chiamato - naturalmente – il contratto collettivo: a fronte di una fisiologica genericità ed incertezza contenutistica della norma (le esigenze aziendali sono quanto mai mutevoli e diversificate), la contrattazione collettiva, ora a livello nazionale ora a livello aziendale, è chiamata a delineare gli idonei percorsi formativi, per settori e tipi di impresa, anche mediante la sinergia con gli altri corpi intermedi quali i fondi interprofessionali o gli incentivi economici da parte degli enti territoriali (2).

Qui il testo della norma esaminata https://www.brocardi.it/codice-civile/libro-quinto/titolo-ii/capo-i/sezione-iii/art2103.html

 

 

Michele Giammusso

 

1() Si veda, Cass., 7 maggio 2008, n. 11142 per la quale, pur escludendo la sussistenza in capo al datore di lavoro di un obbligo formativo né di un dovere giuridico di colmare le lacune professionali dei dipendenti, ne ammette l’esistenza (esclusivamente) in caso di «radicali innovazioni organizzative e produttive per i settori in rapida evoluzione (…) tali da incidere, modificandoli, sugli originari contenuti dell’oggetto della prestazione lavorativa». Nel caso di specie si trattava di impresa del settore informatico.

2() Si legga a tal proposito, m. brollo, Il diritto del lavoro all’epoca delle nuove flessibilità – il mutamento di mansioni dopo il Jobs Act, in Giur. It., 2016, 3, 777 – 778, la quale auspica interventi regolatori ad opera dell’autonomia collettiva in grado di individuare e soprattutto governare i percorsi di mobilità endo-aziendale attraverso, da un lato, un ripensamento degli inquadramenti, dall’altro un ruolo di protagonista del dialogo con i fondi interprofessionali per realizzare politiche di welfare aziendale atte ad accrescere il baglio di competenze professionali dei lavoratori.

 

 

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